Vreid – “V” (2011)

Artist: Vreid
Title: V
Label: Indie Recordings
Year: 2011
Genre: Black Metal
Country: Norvegia

Tracklist:
1. “Arche”

2. “The Blood Eagle”
3. “Wolverine Bastards”
4. “The Sound Of The River”
5. “Fire On The Mountain”
6. “The Others & The Look”
7. “Slave”
8. “Welcome To The Asylum”
9. “Then We Die”

“From my rotting body, flowers shall grow. And I am in them, and that is eternity.” (Edvard Munch)

Dallo scioglimento dei Windir, dopo il triste epilogo mortale del giovane Terje “Valfar” Bakken avvenuto nel 2004, nacque una band di nome Vreid per volere degli amici e componenti che -con dovuto ed ossequioso rispetto- decisero di non continuare ad usare il monicker del defunto mastermind, bensì di intraprendere un nuovo cammino totalmente slegato dal passato dello storico gruppo dove composero e suonarono.

Il logo della band

Vreid significa “rabbia” in norvegese: il sentimento che meglio rappresentava l’epilogo forzato di un’incredibile band, ma in primis -ne sono certo- di una profondissima amicizia.
Formati a Sogndal nel 2004, i Vreid si compongono inizialmente di tre ex-membri dei Windir con l’aggiunta di Ese alla chitarra solista, che abbandonerà però il progetto nel 2010, sostituito poi da Stian Bakketeig (in arte Strom) anch’esso avente fatto parte del compianto act, così da ritrovare invero tutto il nucleo della vecchia band (fatta salva l’eccezione dell’ex-tastierista Righ, intraprendente il progetto Cor Scorpii).
Menzione va fatta anche agli Ulcus: prima band di coloro i quali sarebbero stati i compagni di Valfar dopo il 2001 nel progetto Windir.
Non è un caso che, proprio l’anno scorso in occorrenza del ventennale dalla formazione della storica formazione, decennale dalla morte del suo fondatore nonché dalla genesi dei Vreid stessi, la band abbia deciso di portare sul palco, in occasioni di selezionate date di un tour, parte della storia musicale sia dei Windir che degli Ulcus.

La band

Quella di cui ci apprestiamo a parlare è -ad avviso di chi scrive- l’opera magna dei Vreid, consacrati dallo stesso disco alla maturazione definitiva.
“V”, questo il titolo del lavoro, rappresenta il quinto capitolo della discografia del combo ed esce nel 2011 ad opera della norvegia-centrica Indie Recordings, aggiungendo diverse influenze esterne al sound della band: quel Black Metal melodico e a tratti Rock ‘N’ Roll (non fuori luogo qui l’etichetta Black ‘N’ Roll), direzione in cui si stavano muovendo anche i Windir negli ultimi due dischi (“Mountain Of Goats”, “Despot” e “The Spiritlord” per rendersene conto), segno che da “1184” in avanti non furono più unicamente la creatura di Valfar, ma l’apporto degli arrangiamenti degli altri nuovi componenti, così come il grande ruolo in fase di scrittura del bassista Hvàll, stavano smuovendo la band in nuove e particolari direzioni purtroppo prematuramente interrotte.
A tratti prog è infatti l’andazzo di molti pezzi di “V”, con chitarrismo ancor più devoto al Thrash, pur mantenendo tutti gli elementi acquisiti in anni di lavori in studio, aggiustamenti e perfezionamenti millimetrici.
Fin dall’opener “Arche” sono ben in mostra anche i contenuti filosofici e letterari del disco: come saprà chi mastica un po’ di filosofia, l’Archè è un tema su cui da sempre i pensatori indagano e s’interrogano; esso è principio di tutto, forza che predispone il mutare del mondo e così la sua fine.
La carica Black ‘N’ Roll s’invigorisce di trame Thrash/Prog e più tecniche che in precedenza, infarcito di ottimi solismi ed assoli che rendono il pezzo ancor più gradevole, accostato liricamente al pensiero intrinsecamente pessimistico di Edvard Munch, celebre per la sua visione della morte come parte integrante ed inevitabile della vita nonché ispirazione, paragonato intelligentemente al pensiero dell’arché inizio e fine di tutto.
Segue “Blood Eagle”, un mid-tempo dedicato agli antenati, alle divinità e la paura ancestrale e primigena che -a detta del poeta romano Cecilio Stazio, citato in apertura delle liriche del pezzo- è la creatrice ideologica stessa degli Dei.

“Fear created the first gods in the world.” (Cecilio Stazio)

“Wolverine Bastards” inverte la rotta, partendo in quarta e spingendo sull’acceleratore con le sue ritmiche più tipicamente Black Metal, traendo questa volta spunto dal pensiero dell’inglese John Locke sull’auto-avvelenamento della sorgente da cui l’umanità beve: metafora della distruzione dell’uomo mediante le sue stesse mani.
La melodica “The Sound Of The River” fu scelta come singolo, mid-tempo maestoso che porta l’attenzione sul tema delle tradizioni e l’importanza di avere identità nazionale e popolare, ma anche del ciclo vitale e della natura.
Il maestro inglese William Golding è invece l’ispiratore di “Fire On The Mountain”, titolo omonimo di un capitolo topico del distopico capolavoro letterario rispondente al nome di “Lord Of The Flies” (“Il Signore Delle Mosche”, 1954), una traccia pressoché perfetta: tema l’abbandono di ogni speranza nella bontà dell’uomo, la cui bestia interiore è frenata unicamente dalle costrizioni sociali, come da Golding-pensiero. Stilisticamente ci troviamo di fronte ad un up-tempo senza tregua che inizia con un ispiratissimo assolo, fino al break acustico finale in cui l’emozione è ai massimi livelli.
“The Others & The Hook” è un compendio, in più di dieci minuti di vibranti cambi di tempo, di tutto quello che i Nostri hanno detto nel disco fin’ora, legato al tema della libertà di scelta e pensiero, mentre le successive “Slave” e “Welcome To The Asylum” ci riportano ai Vreid più minacciosi e feroci di “Pitch Black Brigade” (Tabu Recordings, 2006) ed “I Krig” (Indie Recordings, 2007).
Il tema della prima si contrappone ideologicamente al prima citato Golding, rifacendosi al molto meno pessimista Jean-Jacques Rousseau secondo il quale l’uomo nasce libero ma è proprio la società malata a corromperlo, mentre la penultima traccia cita il tedesco Friedrich Nietzsche ed il suo culto del sé, del superuomo, assolutamente adeguata allo snodarsi del brano.
Il ciclo vitale è concluso in ultima battuta da “Then We Die”, epico finale in contrapposizione (o completamento?) della iniziale “Arche”, che si incentra sulla futilità e vacuità della vita stessa citando Jean-Paul Sartre ad inizio liriche.

Musicalmente stupisce l’incredibile varietà di sonorità, ritmiche, metriche e splendide melodie opposte al Black Metal più cruento, in un’alternanza efficace e riuscita; merito anche di una produzione cristallina che -in questo caso- valorizza l’ottimo lavoro in sede di songwriting ed esecuzione.
Menzione è d’obbligo anche allo screaming raschiato e tagliente di Sture che esegue -nei solchi di “V”– una delle sue prestazioni migliori di sempre, consegnando così a noi e alla Storia un disco che riesce a spingersi oltre la “semplice” musica, risultando infine ottimo e delicato compendio di audaci manifestazioni artistiche e letterarie.
Coloro che vorranno dedicare mente e corpo a questa fatica dei Vreid non ne rimarranno delusi, con la chiara e doverosa lettura dei testi che completano e sublimano le musiche.

“Maybe there is a beast… Maybe it’s only us.” (William Golding)

Matteo “Theo” Damiani

https://www.youtube.com/watch?v=7ltkGUk_r8k

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